RASSEGNA STAMPA
IL SECOLO XIX - L’agente che portò le molotov alla Diaz« Quante pressioni per farmi tacere»
Albenga, 21 maggio 2010
L’agente che portò le molotov alla Diaz «Quante pressioni per farmi tacere»
dal nostro inviato
GRAZIANO CETARA
L’unico poliziotto assolto dalla Corte di Appello di Genova è
anche il solo dei 28 imputati ad aver cambiato lavoro: «Io non ce l’avrei
mai fatta a indossare la divisa con
una condanna sulla testa», dice allargando un sorriso pacioso,
incorniciato da capelli imbiancati in fretta. Michele Burgio, 42 anni
single, ora fa l’addetto alla sicurezza dell’Ippodromo di Albenga. Era
«l’ultima ruota del carro» nel giorno della Diaz. Ed era l’autista del
generale Valerio Donnini, la massima autorità del Viminale a Genova al G8
del 2001. Fu il primo a parlare, interrogato dai pm come testimone. E pagò la
sua disponibilità: gomme dell’auto tagliate, la scorta, le frecciate dei
colleghi e persino qualche «pressione» per aggiustare il tiro su quanto
riferito.
Valerio Donnini era il «generale fantasma», mai toccato dall'inchiesta
nonostante fosse stato lui a prendere in carico le molotov raccolte da un
agente in un'aiuola della Foce durante gli scontri e diventate, con un
specie di colpo di bacchetta magica, le prove a sostegno di 93 arresti
illegali, falsi verbali e una perquisizione sfociata in un massacro.
Michele Burgio era l'autista che guidò fino alla Diaz con quelle bottiglie
incendiarie nel bagagliaio. Con lui il vice questore Pietro Troiani. Era
accusato di calunnia e trasporto illegale di armi: il suo legale,
l'avvocato Alessandro Cibien, ha portato a casa un'assoluzione piena.
Il giudice ha condannato tutti i vertici e ha assolto in parte (per
l'accusa più grave) il suo capo Troiani e ha scagionato lei. Il governo e
il capo della polizia hanno rinnovato il sostegno ai loro super dirigenti.
Lei ha ricevuto notizie da Roma?
«Quando mi diedero due anni e sei mesi in primo grado, nessuno mosse un
dito. Ma me l'aspettavo. Ero solo un autista... No, nessuna notizia. In
fondo, però, non sono più in polizia da un po' anche se, quando la
sentenza sarà definitiva, sarà lo Stato a pagarmi le spese legali».
Come arrivò alla decisione di lasciare il servizio?
«Mia madre mi diceva fin da piccolo che ero nato per fare il poliziotto.
Un giorno una collega, in un momento di sconforto, mi disse che si era
stufata. Io le risposi che nessuno sarebbe mai riuscito a stufare me. Be',
devo ammettere che ci sono riusciti».
Per quanto tempo ha fatto il poliziotto?
«Tredici anni, tra Milano, dove ho fatto per qualche mese la scorta ai
magistrati del pool di Mani pulite, e Roma. Da tempo chiedevo il
trasferimento in Liguria ma sembrava chiedessi la luna. Poi è arrivato il
G8...».
Come ha vissuto i giorni dell'inchiesta sul caso dell'irruzione alla
scuola Diaz?
«Sono stato tra i primi a essere interrogato dai due pm, Enrico Zucca e
Francesco Albini Cardona. Mi tennero per quindici ore sotto il torchio.
Ero solo un testimone e difatti quelle parole dette senza avvocato non
sono state usate al processo. Ma le ho pagate care».
Come?
«Il giorno dopo, uscendo di casa per andare a fare la spesa con mia madre,
trovai le quattro ruote dell'auto tagliate. Denunciai l'episodio alla
questura di Genova, mi misero sotto scorta per qualche mese e poi tra gli
obiettivi sensibili. La situazione era tesa. Anche con certi colleghi.
Come se mi ritenessero responsabile di qualcosa».
Lei aveva risposto alle domande, forse contribuì all'identificazione di
Pietro Troiani
«Feci solo il mio dovere. I miei capi di allora mi dissero di dire tutto
quello che sapevo, anche se in seguito le pressioni aumentarono per
aggiustare un po' le cose».
E le reazioni?
«La maggioranza dei colleghi e degli amici veri era al mio fianco. Pochi
altri, invece, li sentivo parlare alle mie spalle, quando passavo.
Facevano battutine idiote, che non voglio neanche più ripetere. È facile
giudicare quando le cose capitano agli altri. Quando toccano a te è
diverso ed è difficile fare ironia. Così un bel giorno ho detto basta. Ne
ho parlato alla mia famiglia. Era giusto che lo facessi con loro e ho
mollato».
Come ha saputo dell'assoluzione?
«Dodici ore in ritardo. Le prime notizie diffuse dai telegiornali mi
davano per errore condannato. Mia madre si è messa a piangere. E io mi
sono attaccato ai tranquillanti. I miei amici mi chiamavano in
continuazione. Al motor club stavano organizzando una colletta per le
spese legali. Il mio avvocato era fuori Genova. Quando è riuscito a
verificare che invece ero stato assolto e mi ha avvisato, ho ripreso a
respirare e mia madre ha pianto di nuovo. Questa volta per la felicità».
Che cosa ricorda della notte della Diaz?
«Ricordo l'uscita dalla questura per i pattuglioni, alle 18. Io distribuii
i panini ai colleghi, che da tre giorni lavoravano quasi senza sosta. Ero
uno degli autisti. Ricordo uno spiegamento di forze incredibile, anche se
con la mia colonna, con Digos e Sco, ci trovammo per sbaglio nella zona
rossa davanti al tribunale. Lì non c'era bisogno di cercare
alcunché. Ricordo la puzza di benzina che c'era nel Magnum, che poi scoprii
provenire dalle due molotov».
Nel processo di primo grado accusarono lei e Troiani di aver ingannato i
vertici della polizia portando quelle bombe alla Diaz
«Vero. E per fortuna la Corte di Appello ha riconosciuto l'assurdità di
tutto questo. Io non avevo alcuna responsabilità sul trasporto e
l'utilizzo di quelle bottiglie. Ma come, un autista si mette a dare ordini
al vice capo della polizia? A un Gratteri?».
Con le molotov nel bagagliaio arrivaste alla Diaz
«Era sera. Ho parcheggiato e sono rimasto lì, a difendere il mezzo».
Quando si accorse che era successo qualcosa?
«C'era un sacco di persone e di giornalisti. Quando ho visto la telecamera
della Cnn capii. E allora mi abbassai sul sedile, per non farmi
inquadrare. Non sai mai come vanno a finire certe cose, mi dissi. Ora lo
so».